Ero seduto al bar con amici, una sera di fine estate del 2009. Eravamo in 6, invitati da Gian per raccontarci “una cosa”.
Mentre ordiniamo, Gian ci racconta che un amico comune stava organizzando una serie di eventi, uno dei quali era previsto per febbraio 2010.
Tutti curiosi per la notizia, lo incalziamo e lui ci dice: “Andiamo in missione in Africa?“
Rimaniamo di sale, ma alla fine del racconto, per alzata di mano eravamo in 2 a partire. Gian ed io.
Gian aveva già raccolto le informazioni per le vaccinazioni richieste, mentre parte delle indicazioni arrivavano in forma di briciole dall’organizzazione indipendente alla quale eravamo appoggiati. Oltre a noi 2 da Torino, partivano una ragazza e l’organizzatore (C.) da Catania, destinazione Burkina Faso.
Siamo partiti con 2 valigioni da 25kg a testa con vestiti e medicine, passando da Roma, Tripoli (Libia), Bamako (Mali) e finalmente Ouagadougou (Burkina-Faso), circa 20 ore di viaggio.
Ricordo il trauma dell’arrivo la sera, con in bocca un mix di sabbia dal gusto vagamente salato e nel naso una serie di odori estranei, ci muovevamo sulle strisce asfaltate della città con un vecchio furgone Volkswagen. Dentro lo sbalordimento per una situazione surreale fatta di canali fognari a cielo aperto, edifici di mattoni di sabbia ed un silenzio inquietante.
“Sono un dio” era il pensiero più pericoloso. Potendo scegliere chi sfamare e chi no, decidevo per vita o per morte. Anche una caramella allo zucchero poteva fare la differenza e loro lo sapevano bene, perchè se ne lasciavi cadere una dalla tasca, c’erano almeno 3 bambini che si accalcavano per raccoglierla.
Ogni giorno eravamo in un villaggio diverso a distribuire sacchi di riso e anche da vuoti venivano contesi dalle donne con litigate furiose.
Un paese di eccessi. poverissimi in attesa del passaggio dei camion cisterna che aspiravano acqua dall’unico bacino disponibile e ricchissimi con piscine in casa.
Quando vivi una tale esperienza ti rendi conto di quanto infinitamente inutile sei in confronto all’enorme bisogno.